Il ritmo della legge: Locri e la voce delle cicale
A Daniela
che con ostinata dolcezza
mi conduce oltre il limite
di ciò che presumevo fosse verità
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Quando si pensa alla storia del diritto nella Magna Grecia, il pensiero corre subito a Zaleuco, alle leggi, alla logica severa del nomos inciso nella pietra. Ma accanto al rigore della norma, c’è un altro linguaggio — altrettanto vincolante e profondamente identitario — che ha segnato l’anima dei Greci d’Occidente: la musica.
Locri Epizefiri, colonia greca affacciata sullo Ionio, ha saputo intrecciare in modo singolare sacro, sociale e sonoro. A rivelarcelo è un piccolo ma significativo protagonista: la cicala. Insetto comune nelle calde estati mediterranee, la cicala assume a Locri un ruolo simbolico che va oltre la biologia o il paesaggio: è canto, infanzia, passaggio, mito e, forse, rivendicazione politica.
La cicala nei riti e nella morte
I rinvenimenti archeologici nelle necropoli locresi raccontano di cicale d’avorio deposte nelle tombe dei bambini, datate al V secolo a.C. Un oggetto apparentemente fragile che, proprio per questo, racchiude significati profondi. È possibile che la cicala, associata al canto e al ciclo vitale estivo, simboleggiasse il passaggio dall’infanzia alla maturità, o meglio: dalla vita alla sfera dell’aldilà, sotto la protezione delle dee legate alla fertilità e alla rinascita, come Persefone.
La sua presenza nei pinakes — tavolette votive dedicate alla divinità — rafforza questa ipotesi. Vi è raffigurata una fanciulla intenta a catturare una cicala, le labbra appena dischiuse come se cantasse. Un’immagine che rimanda a riti prenuziali femminili, in cui il canto e la danza avevano valore propiziatorio. La cicala non è solo un insetto: è metafora del coro, dell’armonia, della voce collettiva che si leva nei riti di passaggio.
Il mito dell’Halex e la rivalità con Reggio
Ma la cicala diventa anche simbolo identitario. Celebre è il mito trasmesso da Diodoro Siculo e da Timeo di Tauromenio: si racconta che le cicale cantassero soltanto sul lato locrese del fiume Halex , mentre restassero mute su quello reggino. Un segno divino? Una leggenda politica? Forse entrambe le cose. In quel confine naturale si riflette la tensione culturale e territoriale tra Locri e Reggio, rivali in epoca arcaica non solo per le terre, ma anche per il primato culturale.
La competizione musicale diventa qui narrazione. Secondo Timeo, durante i giochi pitici, il citaredo locrese Eunomo avrebbe vinto cantando proprio il mito delle cicale, contro il reggino Aristone. Una vittoria non solo artistica, ma polemica e identitaria. Il canto delle cicale diventava così il canto di Locri, e la loro voce — naturale — si contrapponeva al silenzio dell’altro versante.
Le cicale e la memoria sonora della polis
Le cicale, nel contesto della Locri arcaica, non erano semplici creature stagionali, ma incarnazioni di un simbolismo profondo. Il loro canto monotono e continuo veniva percepito come una voce rituale, una presenza sonora sacra che accompagnava i riti collettivi e scandiva il tempo dei culti. La letteratura antica e le leggende raccolte nei territori di Locri e Reggio Calabria restituiscono l’immagine delle cicale come testimoni del divino, connesse al mondo del mito e della memoria.
Un dato particolarmente rilevante, emerso anche nei racconti orali locali, è il legame tra le cicale e le Muse. Nella tradizione greca, già in Platone (Fedro, 258e–259d), le cicale erano considerate creature nate dal desiderio inarrestabile di cantare e di lodare le Muse, tanto da dimenticare perfino di nutrirsi. Per questo, furono trasformate in esseri eternamente canori, che accompagnano gli uomini nella contemplazione e nell’ispirazione artistica. Questo nesso simbolico tra canto, ispirazione e verità si riflette nella cultura locrese, dove il suono naturale della cicala assume un valore quasi oracolare, integrandosi nella narrazione sacra del santuario di Persefone.
Nel territorio locrese, le cicale si sovrappongono così alle melodie corali dei rituali femminili e ai suoni delle processioni religiose, divenendo il tramite sonoro tra la terra e l’altrove, tra la comunità e le divinità tutelari. In tal senso, esse possono essere lette come manifestazioni acustiche delle Muse stesse, custodi del canto e della legge non scritta della tradizione.
Le cicale, infine, si fanno emblema della memoria musicale della polis, voci leggere ma persistenti che conservano il ritmo dell’identità collettiva. Sono esse, forse più delle parole, a restituirci il senso profondo della cultura locrese: una civiltà dove il suono non era solo ornamento, ma codice, rito, norma.
Eunomo e Aristone: nomi come destino
Il fascino della leggenda locrese non risiede solo nel prodigio della cicala, ma anche nella carica simbolica dei nomi che la tradizione ha conservato. Il giovane vincitore, Eunomo (Εὔνομος), porta un nome che fonde in sé eu- (“buono”, “armonioso”) e nómos (“legge”, ma anche “melodia” nel greco musicale): è dunque colui che incarna la buona norma, l’equilibrio tra legge civile e ordine sonoro. La sua vittoria rappresenta l’affermazione di una concezione dell’arte come espressione dell’armonia della polis e del cosmo.
Ma altrettanto significativo è il nome del suo avversario, Aristone che significa letteralmente “il migliore”. Un nome che, apparentemente, dovrebbe suggerire superiorità, eccellenza, quasi una predestinazione alla vittoria. Tuttavia, proprio in questo contrasto si cela la tensione profonda della narrazione: Aristone è il migliore solo di nome, ma non di merito. La sua sconfitta non è solo un ribaltamento del pronostico, ma una critica implicita a una superiorità che si fonda sull’arroganza del titolo e non sulla virtù.
La cicala che interviene a favore di Eunomo diventa così l’emblema del favore divino verso chi è giusto, e non solo “ottimo” secondo apparenza. Il mito rovescia la gerarchia dell’orgoglio: non vince chi è detto il migliore, ma chi agisce in armonia con il nómos naturale e sociale.
Musica e diritto: un’armonia che fonda la città
Nella Locri del mondo antico, la musica non era un semplice ornamento della vita civile, ma un linguaggio fondativo, capace di esprimere — meglio ancora della parola — i principi invisibili su cui si reggeva la comunità. Essa incarnava la misura, l’equilibrio e la proporzione, gli stessi criteri che informavano la legge e che garantivano la giustizia all’interno della polis.
I “concorsi”/sfide musicali, i canti rituali e i nomoi (composizioni musicali codificate) non erano momenti di evasione, ma veri e propri atti pubblici di educazione all’ordine e alla disciplina collettiva. In questo senso, la musica partecipava al nómosi n tutte le sue sfumature: era norma, era codice, era struttura.
A Locri, dove le leggi di Zaleuco imponevano rigore ma anche equilibrio, la musica rappresentava il volto sonoro della legge, la sua eco armoniosa. L’intervento della cicala nella gara tra Eunomo e Aristone, quindi, non è solo un mito estetico, ma un gesto di legittimazione giuridica: la natura stessa — come le Muse — si schiera con chi agisce secondo armonia.
Questa visione ci consegna un’immagine antica ma sorprendentemente moderna del diritto: non come imposizione autoritaria, ma come arte dell’equilibrio, una forma di musica sociale che richiede ascolto, misura e rispetto dei tempi. Come in una partitura ben costruita, ogni cittadino aveva il suo ruolo, e ogni dissonanza doveva essere ricomposta non con la forza, ma con l’educazione alla eunomia — il buon ordine.
Così, nella Locri di Zaleuco, la musica diventa “giurisprudenza” in forma lirica, e la giustizia un’armonia da eseguire insieme, per il bene comune.
Conclusione: armonia, giustizia e il potere dei nomi
La leggenda locrese della sfida musicale tra Eunomo e Aristone si rivela, a una lettura attenta, molto più che un racconto edificante sul talento e l’intervento divino. È, piuttosto, una parabola civile in forma mitica, che racchiude un insegnamento profondo sulla natura della giustizia e sull’ordine della polis.
Il nome di Eunomo — colui che è secondo buona legge — non è una semplice etichetta, ma una dichiarazione di principio. Egli incarna l’armonia intesa come equilibrio tra regola musicale e norma sociale, tra melodia e diritto. La sua vittoria, ottenuta grazie all’intervento prodigioso della cicala, celebra la centralità del nómos, inteso tanto come legge che garantisce la coesione del corpo civico quanto come struttura armonica che regge l’universo.
Dall’altro lato, Aristone — “il migliore” — incarna un’ideale di superiorità formale, ma non sostanziale. È la figura che detiene il primato nel nome, ma non nella condotta. La sua sconfitta simbolica è una lezione sulla differenza tra apparenza e giustizia, tra titolo e merito, tra hybris e misura.
Nel mondo antico, e a Locri in particolare, i nomi non erano mai neutri. Portavano con sé identità, destino, ethos. Così, anche questa leggenda musicale si trasforma in un’allegoria giuridica, in cui si afferma che non vince chi si proclama il migliore, ma chi vive e agisce secondo misura, rispetto e armonia con la legge — sia essa scritta o inscritta nell’ordine naturale delle cose.
Nel mosaico identitario di Locri Epizefiri, accanto alla legge, alla politica e alla religione, trova così spazio anche la musica. E con essa, la cicala — insetto poetico e parlante — diventa un emblema del territorio e della memoria collettiva. In fondo, non è forse proprio nel suono che si conserva la voce di una civiltà?
Leo Stilo
Fonti principali:
Angela Bellia, “Competizioni musicali di Greci d’Occidente: il caso della cicala di Locri”, in Rudiae, XXII-XXIII, 2010-2011.
Angela Bellia, “Strumenti musicali e oggetti sonori nell’Italia meridionale e in Sicilia, VI-III sec. aC: funzioni rituali e contesti, Libreria musicale italiana, 2012.
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